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Parlando di chirurgia estetica della mammella, l’intervento più comune (e come tale più noto al grande pubblico) è certamente la mastoplastica additiva. Tale procedura corregge alcuni fra i più comuni inestetismi, quali l’ipoplasia mammaria, cioè una mammella insufficientemente sviluppata e di conseguenza troppo piccola, oppure una mammella solo moderatamente ptosica, in particolare a livello del polo superiore, un seno, cioè che comincia a svuotarsi (e questo per un logico fattore legato al peso del tessuto ed alla forza di gravità, si manifesta in prima battuta ai poli mammari superiori). Abbiamo non a caso parlato di una mammella solo moderatamente ptosica, in quanto per ptosi di grado maggiore la sola mastoplastica additiva rischia di non essere più sufficiente alla correzione del difetto, dovendosi in questi casi prendere in considerazione altre tipologie di intervento, associate o meno all’impianto delle protesi, quali la mastopessi. Argomenti che verranno trattati più nel dettaglio in altra sede. L’impianto delle protesi (da solo o associato ad altre metodologie chirurgiche) consente di trattare anche inestetismi che travalicano il puro concetto di estetica, quali le asimmetrie mammarie di grado medio o elevato. Condizione questa assai meno infrequente di quanto si possa immaginare e che può pesantemente condizionare il rapporto col proprio corpo e l’autostima. Un minimo grado di asimmetria mammaria deve considerarsi fisiologico e come tale nemmeno preso in considerazione, prova ne sia che molte donne non ne hanno la percezione. Lasciando per un momento il campo delle asimmetrie e concentrandoci su fattori meramente estetici, dobbiamo per onestà intellettuale affermare che un seno piccolo non costituisce affatto di per sé un inestetismo. Possiamo serenamente affermare che per moltissime donne, esso rappresenta piuttosto un valore aggiunto, esattamente come per altre un vero e proprio limite all’affermazione della propria femminilità. In questa dimensione non esiste torto o ragione. Inutile rifarsi a modelli più o meno razionali, il cui unico risultato è quello di proiettare dal di fuori la propria emotività e sensibilità sull’argomento. Il vissuto personale è ciò che ci rende ognuno differente dall’altro.
La mammella non costituisce solamente un “dettaglio” della fisicità femminile. È un qualcosa che la caratterizza profondamente, indipendentemente dalle sue forme, che potremo considerare gradevoli o sgradevoli a seconda delle circostanze, del momento storico che la donna vive e, in ultimo, dei nostri gusti. Il seno è un carattere sessuale primario. Detto così è di una ovvietà sconcertante, se pensiamo per prima cosa all’utilità che la natura gli ha destinato e al fenomenale e biologico richiamo che esercita su di noi. La realtà è sempre più complessa, se ci soffermiamo a considerarla in tutti i suoi aspetti e non solo in superficie. La mammella è un vero e proprio organo che ha funzioni ben precise che non sono fini a sé stesse. Tutti coloro che con essa si relazionano, infanti o adulti che siano, ne rimangono profondamente coinvolti. Fino ad ora abbiamo parlato degli altri, ma non possiamo dimenticare che chi per prima deve relazionarsi nel modo migliore col seno, è proprio la donna. Queste pagine ci dimostrano che questa relazione non è spesso né facile, né semplice. Anzi. In moltissimi casi, situazioni e momenti della vita, essa è molto conflittuale. I problemi di “rapporto” possono cominciare molto precocemente, appena superata l’età dello sviluppo. Un seno di dimensioni troppo contenute, o dallo sviluppo appena accennato, può ergersi a dimensione “castrante” nello sbocciare di un corpo che lo sviluppo cambierà radicalmente. Lo stesso discorso può essere “letto” nella dimensione opposta, l’altra faccia della medaglia potremmo dire. Una mammella che si sviluppa eccessivamente, quasi autonomamente rispetto al resto del fisico, rischia di venire vissuta come qualcosa di estraneo, di lontano da sé, il cui peso fisico e psicologico spesso risulta insopportabile. In tutti questi casi si sviluppa il disagio che a volte si “gestisce” e si “contiene” con l’uso del raziocinio, altre volte può avere conseguenze devastanti sulla personalità e le future scelte di vita che “attendono” la donna.
Richiedere una visita specialistica presso un chirurgo plastico qualificato, richiede coraggio e convinzione. Le donne che si rivolgono allo specialista lo capiscono e lo sanno molto bene. Presentarsi al cospetto di un estraneo, per professionista che sia e mostrare un proprio lato debole, manifestando le mille incertezze e insicurezze che da questo derivano, non è un passo semplice. Non si tratta semplicemente di valutare la fattibilità tecnica dell’ottenere un seno più grande, o semplicemente più florido e giovanile, attraverso l’impianto di quel tipo di protesi, di quel volume, di quella forma e di quella proiezione, attraverso quella via di accesso – sottomammaria, periareolare o transascellare che sia – significa voler riequilibrare un percorso di vita che, in qualche modo, si era finito per trascurare o tralasciare, sulla spinta di situazioni più serie e concomitanti. Naturalmente parliamo di una procedura chirurgica che, come tutte le procedure di questo tipo, non sono esenti da potenziali complicazioni e rischi, nell’arco del breve e del lungo termine. Verificare le proprie generali condizioni di salute, eseguire le indagini diagnostiche anche strumentali che il chirurgo riterrà opportuno prescrivere, rendersi edotte di tutto quanto “gravita” gira intorno alla chirurgia degli impianti mammari, è cosa determinante per poter successivamente scegliere consapevolmente la strada da seguire che, si badi bene, non è una autostrada diritta e a senso unico verso l’obiettivo finale, quello dell’intervento. Valutare serenamente i costi e benefici di una strada da intraprendere, può serenamente portare a conclusioni opposte, quali quelle di procrastinare il momento dell’intervento o, addirittura di non agire. Questo significa consenso informato, parola sulla bocca di tutti ma concetto nella pratica quotidiana vilipeso come non mai. In un mondo così ricco di informazioni, continuamente rinnovate e arricchite da nuovi elementi, sapersi orientare è forse più impossibile che difficile.
La determinazione nel sottoporsi ad un intervento di chirurgia del seno, è e deve essere assolutamente personale. Questo tipo di decisioni non sono mai facili da prendere e mai e poi mai devono risultare il frutto del convincimento, o peggio del condizionamento subito ad opera di altri. Solo la presa di coscienza del manifestarsi o del perdurare di un disagio psicofisico e la considerazione che la strada dell’intervento chirurgico, della mastoplastica additiva, può costituire un valido rimedio a tutto questo, dovranno risultare le molle uniche e sufficienti per approcciarsi al tavolo operatorio.
Tutte coloro che hanno intrapreso questa strada hanno abbandonato il timore di essere considerate persone superficiali o peggio poco serie. Anzi; agire su sé stessi è dimostrazione e riprova di notevoli capacità introspettive, oltre che rispettabile coraggio e buona volontà. Naturalmente la determinazione a migliorare la relazione con sé stessi provocherà un effetto a cascata su tutti coloro con cui le pazienti si relazioneranno.
Avere a che fare, sia su di un piano personale, o anche semplicemente lavorativo con una persona che ha deciso di sentirsi meglio, cambia il corso delle cose, degli eventi, delle relazioni interpersonali. Sembra quasi che migliorare l’estetica del proprio seno sia un gesto limitato, dagli effetti a corto raggio che non superano i confini del mi piace o non mi piace. La realtà dimostra esattamente il contrario.
Il seno costituisce da sempre un elemento determinante nella “costruzione” dell’immagine femminile, ovviamente non solo nell’immaginario maschile ma, in prima istanza, per l’autostima e la personalità della donna stessa. È superfluo dire che non parliamo di sola estetica e di un mero “richiamo sessuale” La mammella è un vero e proprio organo legato a tutte le funzioni inerenti la riproduzione, per un periodo di almeno dodici mesi successivo al termine della gravidanza. Anche in questo caso estetica e funzione non sono antitetiche. Pare tutto scontato, fino a quando un evento straordinario, che si tratti di un trauma, una patologia oncologica, o comunque un evento lesivo/traumatico di qualsivoglia natura non altera questo equilibrio. La chirurgia plastica offre notevoli possibilità “riparative” a queste problematiche, sia che le affrontiamo sotto il versante ricostruttivo, sia che parliamo di estetica.
L’intervento di mastoplastica additiva è certamente il più noto fra gli interventi migliorativi l’estetica del seno femminile e, non a caso, uno di quelli, in assoluto, maggiormente eseguiti al mondo. Viene praticato in alcuni casi in sedazione, ma più frequentemente (e a mio avviso correttamente) in anestesia generale, in regime di day hospital o con almeno una notte di osservazione in clinica. Mediamente la “durata” di questa procedura varia a seconda delle situazioni fra una e due ore circa.
Allo stato attuale dell’arte, la mastoplastica additiva si esegue utilizzando protesi in gel di silicone le cui caratteristiche costruttive, oltre che le forme, i volumi, il grado di proiezione, possono essere adattati ai singoli casi, offrendo la possibilità al paziente ed al chirurgo di “personalizzare” questa procedura al massimo grado. Come per qualunque opzione chirurgica, il primo elemento valutativo sarà l’indicazione all’intervento stesso. Se cioè la mastoplastica additiva costituisce realmente l’opzione più corretta per risolvere le problematiche estetiche che la paziente sottopone al chirurgo. La visita specialistica serve a questo. A illustrare al paziente le opzioni tecniche a disposizione, l’effettiva utilità della procedura in sé e come il risultato di tutto questo la paziente potrà e dovrà gestire nel tempo, dal momento che esso la accompagnerà per moltissimi anni, se non per l’intera sua vita.
L’intervento di mastoplastica additiva in Italia e nel resto del mondo è nato molti anni fa. A partire dagli anni 20, vennero fatti i primi tentativi chirurgici attraverso l’iniezione di tessuto adiposo autologo nel seno. Questa tecnica si dimostrò senza successo in quanto il grasso innestato non sopravviveva e veniva invece rapidamente riassorbito. Questo approccio chirurgico è stato abbandonato circa 20 anni dopo. Nello stesso tempo, l’iniezione di silicone liquido proposto come semplice e non traumatica procedura per l’ aumento del seno, fu anch’essa rapidamente abbandonata, a causa delle complicazioni di ordine locale e generale che questa tecnica comportava in una percentuale significativamente elevata di pazienti.
Le moderne tecniche di mastoplastica additiva attraverso l’impianto di protesi mammarie in gel possono essere fatte risalire ai primi anni Sessanta, quando finalmente è stato scoperto un metodo di impianto più sicuro per l’ingrandimento del seno. è un fatto che la struttura ed il design dei primi impianti fossero alquanto differenti in termini di resistenza, sicurezza e stabilità rispetto agli impianti attualmente in uso, sebbene anch’essi fossero costituiti da un involucro di silicone, riempito con una soluzione salina o gel di silicone.
L’ aumento del seno, come qualsiasi trattamento di chirurgia estetica, è una procedura invasiva. Eseguita in anestesia generale, in regime di day hospital o con una notte di ricovero in clinica, richiede una adeguata preparazione, seguendo le istruzioni specifiche delineate durante la consultazione dal vostro chirurgo plastico per gli interventi di chirurgia estetica.
Potrebbe essere necessario modificare per un breve lasso di tempo il vostro stile di vita, limitare o interrompere l’assunzione di farmaci specifici come l’aspirina e le molecole denominate FANS. Inoltre, vi sono altre classi di farmaci, la cui assunzione può interferire con il metabolismo dei comuni anestetici utilizzati durante l’intervento chirurgico di mastoplastica additiva. Di tutto questo dovrete informare l’anestesista che prenderà gli accorgimenti necessari. è importante che informiate il vostro chirurgo plastico di tutti i farmaci, compresi integratori o vitamine che di solito assumete. Consigliamo sempre ai nostri pazienti di evitare o comunque ridurre l’assunzione di alcolici ed il fumo di sigaretta. I prodotti di degradazione del fumo riducono la percentuale di globuli rossi indispensabili per il trasporto dell’ossigeno alle cellule. Una riduzione in questo senso può ritardare o complicare i processi di normale guarigione, allungando i tempi di recupero e ritorno alla piena efficienza fisica e di conseguenza alle proprie normali attività. Infatti i dati scientifici hanno dimostrato che il consumo di nicotina aumenta il rischio di infezione e ritarda la guarigione.
Un corretto stile di vita dovrebbe includere sempre un buon programma di esercizio fisico e l’assunzione di liquidi in giusta misura da 3 a 4 settimane prima dell’operazione. Ciò contribuirà a preparare il vostro corpo ad affrontare i semplici problemi derivanti da questo tipo di intervento. Consigliamo sempre alle nostri pazienti di organizzare il loro trasporto da e per la clinica. Così come prevedere un supporto per la notte successiva all’intervento.
La mastoplastica additiva non potrà essere eseguita in caso di gravidanza accertata. Negli esami ematochimici previsti, è possibile inserire anche un test di di gravidanza.
Vi sono ampie discussioni riguardo ai vantaggi delle protesi mammarie in gel di silicone a confronto con le protesi mammarie a contenuto salino, che hanno lasciato molte donne un po’ confuse su quale tipo di impianto sia loro più idoneo. Ebbene, entrambi i tipi di impianti sono molto comuni al giorno d’oggi e in definitiva dipende dai singoli casi la scelta del tipo che si adatta meglio. La prima cosa che, chiunque consideri di sottoporsi ad un intervento di impianto di protesi mammarie deve fare, è consultarsi con il chirurgo plastico sui vantaggi e limiti delle protesi in gel di silicone e protesi saline.
Le protesi saline solitamente richiedono un’incisione molto più piccola per il loro posizionamento all’interno del torace. Quando questi impianti vengono inseriti, sono inizialmente vuoti e solo dopo l’inserimento le protesi vengono riempite con soluzione salina sterile. Se è vero che l’inserimento delle protesi saline è semplice e meno traumatico, è altresì vero che tali protesi hanno un più alto indice di complicazioni relative alla perdita di soluzione salina dalle valvole e quindi di riduzione del loro volume. Altri problemi che possono manifestarsi sono il fenomeno del wrinkling (grinze – è l’effetto che può far apparire la pelle come se avesse delle increspature) o del rippling (il seno appare in modo irregolare ed ondulato anche al tatto). Le complicazioni dell’intervento di mastoplastica additiva con impianto di protesi saline sono di solito visibili ad occhio nudo o possono essere percepite al tatto.
Le protesi in gel di silicone richiedono un’incisione di dimensioni lievemente maggiori per il loro impianto, in quanto esse sono già riempite con gel di silicone al momento dell’impianto. Tuttavia, una protesi in gel silicone di solito riprende più fedelmente la morfologia di un seno naturale. Questo è il motivo principale per cui molte donne preferiscono una protesi a base di silicone anziché un impianto salino, anche se le protesi saline sono più facili da inserire e di solito non comportano alcun rischio in caso di rottura dell’involucro esterno e conseguente fuoriuscita del liquido.
Le protesi al silicone sono disponibili in moltissime misure e con differenti proiezioni e profili, allo scopo di adattarsi perfettamente alle diverse tipologie di mammella. In sede di visita specialistica sarà quindi possibile valutare esattamente la forma ed il profilo della protesi più indicata per il proprio seno.
Palpabilità dell’impianto
La percezione di eccessiva rigidità dell’impianto potrebbe essere dovuta o ad una ridotta congruità fra il volume della protesi e lo spazio della tasca protesica, oppure potrebbe essere il segno della comparsa di una contrattura capsulare. Se avete dei dubbi relativamente alla sensibilità del vostro impianto mammario, dovete rivolgervi immediatamente al vostro chirurgo plastico.
Wrinkling
Il rischio di percepire al tatto i bordi della protesi o le ondulazioni sulla superficie di essa, dipende da svariati fattori. Il primo fattore è dato dal volume della protesi. Un altro fattore è relativo alla quantità di tessuto ghiandolare adiposo presente nella mammella prima dell’intervento di mastoplastica additiva. Se avete un petto piatto il chirurgo probabilmente inserirà l’impianto di silicone dietro il muscolo pettorare per ridurre il rischio di wrinkling, ovvero di increspature rilevabili alla vista ed al tatto. è necessario discutere di questa opzione con il chirurgo alla vostra prima visita.
Migrazione della protesi mammaria
Un impianto di silicone al seno ha bisogno di circa 6 mesi per stabilizzarsi completamente nella sua posizione corretta (questo vale soprattutto per le protesi cosiddette “anatomiche”). Talvolta si può stabilizzare in una posizione incorretta rispetto all’asse maggiore della mammella e di conseguenza in una posizione che può essere più bassa o più alta rispetto a quella desiderata. In queste situazioni, potrebbe rendersi necessario un secondo intervento per la revisione della tasca mammaria. Il chirurgo solitamente preferisce aspettare diversi mesi affinché gli impianti si stabilizzino prima di pianificare un altro intervento chirurgico per regolare nuovamente la tasca dell’impianto.
Estrusione della protesi mammaria
Rara situazione spesso associata alla formazione di sieroma. Un sieroma è una raccolta di liquido sieroso chiaro che talvolta si sviluppa nella tasca protesica dopo l’intervento. La rottura dei micro vasi sanguigni e linfatici, unita alla formazione della tasca, può provocare da parte dei tessuti una reazione infiammatoria che porta alla formazione di variabili quantità di fluido. Quando questo accade, è necessario il drenaggio del sieroma e in alcuni casi si deve procedere alla rimozione temporanea dell’impianto ed al suo successivo riposizionamento.
Rotazione dell’impianto (protesi mammarie anatomiche)
Complicazione spesso vista quando la protesi scelta è anatomica (cosiddetta protesi mammaria a goccia). è necessario discutere di questa opzione con il vostro chirurgo. è necessario essere consapevoli che, sebbene le protesi anatomiche sono in grado di produrre un aspetto naturale, non appariranno naturali se ruotano. In questo caso si rende necessaria la revisione delle tasche e il riposizionamento dell’impianto nella corretta posizione.
Perdita di silicone (bleeding)
Le protesi mammarie sono costituite da un involucro di silicone e contengono un nucleo in gel di silicone (negli impianti di ultima generazione ad alta coesività). Negli impianti di vecchia generazione era frequente il fenomeno del “bleeding”, cioè una migrazione (spostamento) del silicone a livello molecolare al di fuori dell’involucro protesico e suo reperimento nei linfonodi. Cosa del tutto differente, è la formazione di un siliconoma (raccolta di silicone all’interno del parenchima mammario con componente granulomatosa concomitante, equivalente ad un granuloma da corpo estraneo). Evento possibile a seguito di diretta iniezione di silicone nel tessuto mammario. La gravità di queste reazioni infiammatorie ha portato al divieto dell’utilizzo del silicone liquido per l’ aumento del seno e il rifacimento dei profili corporei. In situazioni di questo tipo è necessario rimuovere chirurgicamente per quanto possibile il silicone fuoriuscito.
Necessità di un nuovo impianto
Tutti gli impianti mammari, per quanto costruiti con elevati standard di qualità, sono soggetti ad usura. Consigliamo ai nostri pazienti di prendere in considerazione la sostituzione dell’impianto dopo un periodo di tempo massimo di 15 anni. Infatti, gli impianti invecchiano così come il nostro corpo. Ciò li rende vulnerabili a perdite e rotture dell’involucro esterno.
Gli effetti indesiderati dell’aumento del seno
Dopo aver fatto la mastoplastica additiva, si può iniziare a soffrire di tutti quegli effetti naturali associati ad un seno di più grandi dimensioni, come i segni del reggiseno, la ptosi (caduta) del tessuto mammario nel tempo, lo sviluppo di vene prominenti, ecc. Indossare un reggiseno di sostegno contribuirà a ridurre queste evenienze, ma niente blocca completamente gli effetti della gravità e del tempo.
Espianto protesi
Per motivi personali, alcune donne preferiscono rimuovere le protesi mammarie e non sostituirle. Devono essere consapevoli che a ciò può residuare un eccesso di cute ed una ptosi della mammella. In questi casi il chirurgo potrebbe suggerire il sollevamento del seno (mastopessi o anche noto come lifting) per correggere la ptosi e ridare tono al seno.
L’intervento di aumento del seno è una procedura chirurgica relativamente semplice. Ma come per ogni operazione, vi sono rischi e complicanze associate.
Il problema più comune, la contrattura capsulare, si verifica se la capsula intorno alla protesi, da morbida e impalpabile, inizia a comportarsi come una cicatrice retraente. Questa compressione sull’ impianto protesico può far sì che il seno si avverta rigido e poco naturale. La contrattura capsulare può essere trattata in diversi modi, e richiede a volte la revisione chirurgica della tasca protesica, per eliminare in tutto o in parte la capsula periprotesica divenuta patologica, mediante capsulotomia o capsulectomia, o addirittura rimozione e sostituzione dell’impianto.
Come per qualsiasi procedura chirurgica, esiste il rischio di formazione di ematoma dopo una mastoplastica additiva, cosa che può causare gonfiore e dolore. Se il sanguinamento eccessivo continua, può essere necessario il drenaggio chirurgico per fermare il sanguinamento e rimuovere il sangue accumulato.
E’ descritta la possibilità di infezione che coinvolga l’impianto mammario. Ciò può verificarsi in qualsiasi momento, ma più spesso accade entro una settimana dopo l’intervento di mastoplastica additiva. In alcuni casi, può essere necessario rimuovere l’impianto per diversi mesi fino alla completa guarigione dell’infezione. Un nuovo impianto può quindi essere reinserito.
Alcune donne riferiscono che i loro capezzoli diventano ipersensibili, iposensibili, o addirittura insensibili. Si possono inoltre percepire piccole aree di intorpidimento in prossimità delle incisioni. Questi sintomi di solito scompaiono nel tempo, ma in alcuni pazienti possono essere permanenti.
Non ci sono prove che l’impianto di protesi mammarie influisca in alcun modo sulla fertilità, la gravidanza, o la capacità di allattamento (in particolare con l’accesso per via sottomammaria). Se, tuttavia, avete allattato al seno per un periodo di 12 mesi antecedente l’intervento di mastoplastica additiva, è possibile che le mammelle producano latte per un paio di giorni dopo l’intervento chirurgico. Questo può causare qualche disagio, ma può essere trattato con farmaci prescritti dal medico.
E’ descritta la possibilità di rottura spontanea degli impianti mammari. La rottura può verificarsi come conseguenza di lesioni o traumi della regione toracica oppure spontaneamente a causa di un difetto del ciclo produttivo che rende soggetta la protesi a rottura anche solo a causa della normale compressione e movimento del seno e della protesi: il guscio artificiale inizia a perdere il suo contenuto. Se un impianto a soluzione salina si rompe, la protesi si sgonfia in poche ore e la soluzione salina, innocua, viene assorbita dal corpo.
Se si verifica la rottura di un impianto a base di gel di silicone, possono verificarsi due situazioni. Se l’involucro si rompe ma la capsula periprotesica rimane integra (è quello che accade nella stragrande maggioranza di questi casi), è possibile che la paziente non riscontri alcun cambiamento. Se anche la capsula periprotesica si rompe o si incrina, soprattutto dopo traumi di grande intensità, il gel di silicone potrebbe essere in parte reperito a contatto con i tessuti circostanti. Può derivarne quindi un cambiamento della forma o consistenza del seno. Entrambi i tipi di rottura richiedono una seconda operazione per la sostituzione dell’impianto difettoso. In alcuni casi di rottura della protesi, può non essere possibile rimuovere tutto il gel di silicone dal tessuto.
Alcune donne con protesi mammarie hanno riferito la comparsa di sintomi simili a quelli presenti nelle malattie del sistema immunitario, come la sclerodermia (sviluppo di tessuto fibroso), l’artrite e altre condizioni simili. Questi sintomi possono includere dolori o gonfiori articolari, febbre, stanchezza, o dolore al seno. La ricerca non ha trovato alcun legame evidente tra le protesi mammarie al silicone ed i sintomi di quello che i medici chiamano “disturbi del tessuto connettivo”.
Mentre non vi è alcuna prova che le protesi mammarie siano causa di tumore al seno, la loro presenza può interferire con la lettura della mammografia, se non si ha a che fare con un radiologo esperto. Quando si richiede una mammografia di routine, si deve essere sicuri di rivolgersi ad un centro di radiologia dove i tecnici siano esperti nelle speciali tecniche richieste per ottenere una radiografia affidabile di un seno con un impianto mammario. Visualizzazioni aggiuntive saranno richieste. Esami ad ultrasuoni possono essere di beneficio in alcune donne con protesi per rilevare noduli al seno o per valutare l’impianto.
Se è vero che nella maggior parte delle donne non si verificano queste complicazioni, dovreste discutere ciascuna di esse con il vostro chirurgo per essere sicure di comprendere i rischi e le conseguenze di un intervento chirurgico al seno come la mastoplastica additiva.
L’ aumento del seno può migliorare l’ autostima e l’aspetto estetico, ma non necessariamente lo cambia in modo da renderlo uguale all’ideale prefigurato nella mente della paziente, né comporta inevitabilmente che altre persone si relazionino a voi in modo diverso rispetto a prima. Prima di decidere se sottoporvi ad un intervento chirurgico di mastoplastica additiva, riflettete attentamente sulle vostre aspettative e discutetene con il chirurgo.
I migliori candidati sono donne alla ricerca di un miglioramento, non della perfezione, del proprio aspetto estetico. Se siete fisicamente sane, psicologicamente equilibrate e le vostre aspettative sono realistiche, potete essere delle buone candidate.
Possiamo a questo punto delineare la figura di quella che potrebbe essere la candidata ideale per l’intervento di mastoplastica additiva.
• parliamo innanzitutto di soggetti, che abbiano compiuto la maggiore età, che la legge italiana stabilisce in 18 anni.
• non in gravidanza o in allattamento (dobbiamo considerare almeno 6 mesi dopo la fine dell’allattamento)
• pazienti in condizioni psicofisiche adeguate. A questo proposito l’esecuzione e la valutazione degli esami ematochimici, dell’elettrocardiogramma e dell’ecografia mammaria risulteranno determinanti.
• pazienti ovviamente non soddisfatte relativamente all’estetica del proprio seno, che trovano nella mastoplastica additiva l’indicazione corretta alla correzione del dismorfismo di cui sono portatrici.
• pazienti che siano state correttamente edotte riguardo ai risultati conseguibili con l’intervento. In una parola, donne con aspettative realistiche riguardo ai risultati ottenibili.
L’ operazione di aumento del seno comporta alcuni rischi e complicanze ad essa associati. Questa sotto sezione non è destinata a spaventarvi, dal momento che tutti i rischi e le complicanze sono estremamente rare, ma rientra nella nostra responsabilità mettervi a conoscenza di ciò che necessario sapere prima di procedere con un intervento di mastoplastica additiva.
Questa è certamente la più grave complicanza a lungo termine di cui è necessario essere a conoscenza , in quanto ne può conseguire la necessità di un altro intervento chirurgico finalizzato a trattare questo problema. è un dato di fatto che ogni volta che si impianta un biomateriale quale una protesi mammaria, l’organismo produce una reazione fisiologica che consiste nel rivestire la protesi con una membrana fibrosa, denominata capsula mammaria. Ciò avviene qualunque sia il tipo di impianto, protesi in gel di silicone o a contenuto salino, e qualunque sia la posizione di impianto, sottoghiandolare o sottomuscolare.
Quello che è anormale è che questo tessuto cicatriziale intorno alla protesi si addensi gradualmente. Alla fine, lo spessore del tessuto cicatriziale porta ad una contrazione che provoca la tipica durezza dell’impianto, tipica della contrattura capsulare patologica. Ciò ha un impatto sulla forma dell’impianto e solitamente il paziente può iniziare a sentire un certo disagio. Questo è chiamato contrazione capsulare. Il trattamento è quello di rimuovere il tessuto cicatriziale (capsulectomia) e procedere con la sostituzione degli impianti.
La capsulectomia è il termine che si riferisce ad un intervento chirurgico destinato alla rimozione della capsula, che è il tessuto cicatriziale contratto formato attorno alle protesi mammarie. Durante questa operazione il tessuto cicatriziale intorno alla protesi insieme allo stesso impianto vengono rimossi e l’impianto viene sostituito. Spesso, è necessario effettuare una nuova tasca o / e ridurre le dimensioni dell’impianto. Talvolta il chirurgo cambia il tipo di impianto quando procede alla sua sostituzione.
Infezione
Normalmente le infezioni dopo l’intervento di mastoplastica additiva sono rare, e quando avvengono può essere un problema serio. Cerchiamo sempre di informare i pazienti su quali siano i segni precoci, come il rossore, il gonfiore del seno e la sensazione di malessere. In un primo momento, il chirurgo cerca sempre di trattare l’infezione con gli antibiotici, ma se l’infezione non può essere fermata, allora è inevitabile che l’impianto debba essere rimosso in modo da permettere all’infezione di risolversi. Dopo tre – sei mesi dalla rimozione, potrà essere inserito un nuovo impianto.
Ematomi e coaguli di sangue
Può verificarsi un sanguinamento eccessivo o un ematoma, che possono richiedere il drenaggio chirurgico. Ciò significa andare incontro ad un altro intervento. è importante che non si assumano, se non è assolutamente indispensabile, farmaci a base di acido acetilsalicilico, farmaci anti-infiammatori non steroidei, prodotti che interferiscono coi meccanismi di coagulazione del sangue nelle 2 settimane precedenti l’ntervento chirurgico, in quanto questi farmaci possono aumentare il rischio di sanguinamento.
Cicatrici
Ogni procedura chirurgica, che comporta una incisione cutanea, produce una cicatrice. Di solito, le cicatrici dopo una mastoplastica additiva sono discrete e nascoste all’interno di linee e pieghe naturali della cute. A volte, le cicatrici patologiche possono costituire un problema. Il chirurgo plastico in un primo momento consiglierà l’utilizzo di prodotti specifici per indirizzare il processo di cicatrizzazione nel migliore dei modi. Come passo successivo, il chirurgo può eseguire infiltrazioni con prodotti antifibroplasici nella cicatrice per contribuire a ridurne l’ipertrofia. Consigliamo sempre ai nostri pazienti di evitare di esporre le cicatrici al sole, perché possono pigmentarsi e rimanere scure anche in inverno.
Asimmetria dei seni mammari
Spesso il chirurgo esteico deve utilizzare due protesi di dimensioni differenti per correggere un seno asimmetrico per forma e volume. è un fatto che una simmetria perfetta è impossibile e quindi il chirurgo ha il dovere di informare sempre la paziente di essere realista nelle sue aspettative. Tuttavia, è importante sapere che a seguito di una mastoplastica additiva è impossibile correggere alcuni parametri che definiscono la forma del seno. Ad esempio la distanza che separa il complesso areola/capezzolo da un punto fisso, come l’incisura del giugulo. La diversità di due mammelle asimmetriche si troverà ad essere ridotta dopo mastoplastica additiva, in quanto diluita in un volume maggiore. Quindi percentualmente ridotta, ma non annullata.
Ritardi nella guarigione della ferita
In caso di posizionamento incongruo delle protesi o di eccessiva discrepanza fra il volume degli impianti e le tasche protesiche, la pressione esercitata dalla protesi sulla linea di incisione appena suturata, può provocare la deiscenza (apertura) della sutura e addirittura l’estrusione (fuoriuscita) delle protesi. Se si sviluppa un’infezione concomitante a causa dell’esposizione della protesi, può rendersi necessario il loro espianto, la rivisitazione delle tasche protesiche ed il successivo reimpianto.
Ipersensibilità al capezzolo
Dopo un intervento di aumento del seno, i capezzoli diventano molto sensibili. Ciò è talvolta fonte di imbarazzo e disagio. Questo problema si normalizza e scompare solitamente nell’arco di poche settimane, e durante il tempo di guarigione una protezione al capezzolo può aiutare a migliorare il disagio. I capezzoli inoltre possono diventare meno sensibili.
Lesioni nervose
L’ intervento di mastoplastica addiitiva talvolta provoca una riduzione della sensibilità attorno al capezzolo e alla parte inferiore del seno. Questo è spesso un problema temporaneo, ma può richiedere fino a 18 mesi per migliorare. Raramente, la perdita di sensibilità intorno al capezzolo può essere permanente.
La mastoplastica additiva si esegue di routine in anestesia generale e richiede solitamente fra una e due ore per essere portata a compimento. Procedure alternative sono quelle dell’anestesia locale con l’ausilio di una sedazione profonda. A mio avviso l’anestesia generale costituisce la scelta migliore, tanto per il paziente che per l’equipe chirurgica.
Viene praticata mediante una incisione di circa 4 cm, posizionata nel solco sottomammario, quindi facilmente in esso occultabile, nella circonferenza emiperiareolare inferiore o nel suo terzo esterno, una scelta dipendente in prima battuta dall’anatomia. L’areola deve avere necessariamente una circonferenza tale da consentire lo spazio sufficiente al passaggio della protesi, una volta realizzata la tasca protesica. L’ultima opzione è quella dell’incisione sul pilastro ascellare anteriore. Una opzione che possiamo definire intrigante, ancorché portatrice di vantaggi e limiti che non vanno ignorati. Viene poi allestita la tasca protesica (lo spazio fisico di adeguate dimensioni realizzato al di sotto della ghiandola mammaria, al di sopra del muscolo pettorale o parzialmente al di sotto di esso, (tecnica dual plane). Naturalmente la “scelta” della sede di impianto verrà fatta di concerto con la paziente sulla base di precisi elementi anatomici, funzionali e, possiamo dire di comfort” per la paziente, relativamente alle sue abitudini di vita ed eventualmente al lavoro da essa svolto.
La mastoplastica additiva è un intervento, al di la dei luoghi comuni, gestibile senza eccessive difficoltà da parte delle pazienti. Il tempo di recupero varia a seconda della reattività personale, ma è comune che le pazienti siano in grado di tornare al lavoro entro 10 giorni dall’ intervento. È cosa normale che le donne, dopo un intervento chirurgico di mastoplastica additiva, spesso avvertano una maggiore sensibilità in tutta l’area del seno e in particolare in quella dell’areola e del capezzolo per qualche settimana. Evitare il contatto fisico diretto per minimizzare il rischio di trauma e il fastidio durante il periodo di guarigione, attiene più al semplice buon senso che ad una precisa, quanto ovvia, indicazione clinica. Dopo circa due o tre settimane il gonfiore e il disagio spariranno gradualmente. Dopo due settimane, il contatto fisico con i con la regione mammaria torna gradualmente tollerato e tollerabile.
Come abbiamo precedentemente accennato, il posizionamento delle protesi, previo allestimento di uno spazio fisico di adeguate dimensioni, può essere effettuato in posizione retroghiandolare, oppure retromuscolare, fino ad una scelta che potremo definire per semplicità intermedia caratterizzata da un posizionamento retromuscolare nella porzione dei poli mammari superiori e retroghiandolare nella porzione inferiore. Naturalmente ogni opzione prevede modalità tecniche specifiche, indicazioni e limiti che coinvolgono tanto il chirurgo che la paziente. Attiene all’esperienza e alla confidenza, se vogliamo usare questo termine, con l’intervento da parte del chirurgo, oltre alla sua propria visione estetica. Stesso discorso va fatto per la paziente, le cui indicazioni vanno discusse, elaborate e commentate. La richiesta che più comunemente il chirurgo si sente fare è quella di un seno certamente più florido e prosperoso, ma il più possibile “naturale” Bisogna stabilire un punto fermo. A prescindere da elementi anatomici precisi, i quali vincolano chirurgo e paziente a certe scelte, non è la forma delle protesi o la loro modalità di posizionamento che creano un seno naturale; è il volume. Un volume protesico adeguato, rispetto alle caratteristiche anatomiche del torace che le deve accogliere, una protesi di proiezione corretta, costituiscono la chiave di volta per ottenere un buon risultato finale. Dopo un congruo lasso temporale, protesi e torace si adattano l’uno all’altra e solo dopo questo periodo si può fare una corretta valutazione di quello che si è ottenuto.
L’intervento chirurgico di mastoplastica riduttiva o di riduzione del seno, i termini possono essere usati come sinonimi, fa ovviamente parte della grande famiglia della chirurgia della mammella in senso lato, rivestendo una duplice funzione in ambito estetico e funzionale.
Se nell’insieme della chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica è molto difficile se non quasi impossibile separare questi due aspetti, intendo quello estetico, concentrato nella ricerca del miglioramento delle forme e nel ripristino di una dimensione armonica e quello funzionale, volto logicamente al recupero dell’integrità fisica e di conseguenza al mantenimento/miglioramento/sviluppo della funzionalità dell’organo interessato, questo principio trova nella chirurgia della mammella forse il più alto grado di sintesi.
Se nella classica mastoplastica additiva la componente estetica è chiaramente preponderante, passando anche per un certo grado di miglioramento delle forme oltreché all’implemento dei volumi, nella riduzione del seno questi due elementi giocano un ruolo quasi paritario.
A questo proposito se la mastoplastica riduttiva occupa il posto che le spetta di diritto nella chirurgia mammaria, come già abbiamo scritto, non è però sbagliato affermare che essa può integrarsi anche in un’altra grande famiglia della chirurgia plastica, quella della chirurgia dei volumi e dei profili corporei. Se una affermazione di questo tipo può apparire scontata, ricordiamo sempre come la ricerca dell’equilibrio e dell’armonia di forma e volume sia nella nostra specialità un elemento imprescindibile.
Tutto lo sviluppo dell’organismo umano sappiamo essere controllato geneticamente, dalla nascita proseguendo per l’intera vita compresa la sua fine, e la mammella non fa ovviamente eccezione. La risposta genetica è diversissima da soggetto a soggetto e nella ghiandola mammaria la capacità di rispondere “presente” agli stimoli ormonali che dalla pubertà in poi ne determinano la crescita, differisce in modo palese da soggetto a soggetto.
Si badi bene che, seppur in misura minore dato il differente profilo ormonale, questo discorso riguarda anche il maschio. La ginecomastia, la condizione frutto dell’eccessivo sviluppo della ghiandola mammaria nell’uomo, risponde ai medesimi meccanismi fisiologici e, seppur con differenze tecniche, viene trattata concettualmente nello stesso modo, attraverso la rimozione del tessuto ghiandolare eccedente.
Chiaro che anche gli stili di vita concorrono a definire il complesso di questo inestetismo. La mammella, maschile o femminile che sia, è costituita da un nucleo ghiandolare e da una quota variabile di tessuto adiposo, tanto che si fa riferimento al termine di tessuto ghiandolare adiposo per indicare il complesso della mammella. Ovviamente la componente adiposa varierà enormemente sulla scorta delle nostre abitudini, ma non solo. Un determinato grado di involuzione adiposa del tessuto mammario è di comune riscontro con l’avanzare dell’età, allorquando la mammella perde la sua funzione di supporto al meccanismo riproduttivo. Non dimentichiamo che la natura non agisce mai a caso e soprattutto non spreca mai le sue risorse. La biologia di tutti gli organismi viventi ne è un quotidiano esempio.
L’intervento di riduzione del seno racchiude diversi aspetti fondamentali.
Il primo, neanche a dirlo, è l’asportazione della componente ghiandolare/adiposa esuberante. Serve poi compattare il tessuto residuo, riposizionare correttamente i complessi areola/capezzolo al centro dei coni mammari, risollevare la mammella in toto in quanto peso e volume eccessivi comportano inevitabilmente un variabile grado di ptosi e infine adeguare il mantello cutaneo alle nuove forme ed ai volumi creati. Può apparire perfino sciocco dirlo, ma questa “operazione” viene eseguita due volte, richiedendo il massimo grado di simmetria possibile nei due lati. E gestire condizioni di asimmetria preoperatoria a volte marcata, non è cosa semplice. Vi sono situazioni nelle quali, nel contesto di una medesima paziente, il chirurgo si trova a intervenire su due mammelle strutturalmente differenti che a volte sembrano appartenere a due persone diverse, dovendo alla fine farle risultare le più simili possibile. Senza dimenticare che è necessaria una mediazione fra la determinazione alla riduzione dei volumi, cosa per la quale inevitabilmente le pazienti spingono, e la necessità di conservare la vitalità dei tessuti aggrediti; non parliamo di materiali inerti! Affermare che la riduzione del seno rappresenta uno dei banchi di prova più difficili della chirurgia plastica, è semplicemente dire il vero.
La letteratura scientifica sull’argomento, riporta che i primi interventi di riduzione del seno datano alla fine del 1600, per opera di un chirurgo inglese: Durston.
Per un salto di qualità riguardo il miglioramento delle tecniche operatorie, bisognerà attendere il tardo 800/primi del 900 per opera di chirurghi quali Pousson e Vercheré. Il nucleo fondamentale di queste tecniche era basato su resezioni a tutto spessore, comprendenti quindi cute, ghiandola mammaria e tessuto adiposo circostante, localizzate sui quadranti mammari superiori, a cui si associava il fissaggio della porzione ghiandolare residua al muscolo pettorale, all’evidente scopo di fornirle sostegno e combattere la ptosi.
Un grande passo in avanti si avrà negli anni 30, con l’introduzione di una tecnica basata sulla creazione di un peduncolo vascolare che comprendesse l’areola ed il capezzolo. Tale peduncolo doveva essere isolato e assolutamente rispettato, allo scopo di ridurre al minimo il rischio di danneggiamento fino alla necrosi dei complessi areola/capezzolo, vera complicazione e rischio principe ancora oggi di questo intervento, descritto in tutta la letteratura sull’argomento e chiaramente esplicitato nei consensi informati al riguardo.
Il definitivo salto nell’attualità si avrà a partire dagli anni 70/80 ad opera di chirurghi considerati a pieno titolo fra i più famosi al mondo, quali Ivo Pitanguy, Strombeck, Mc Kissock e altri, ideatori di approcci tecnici e metodologie validissime a tutt’oggi. Non possiamo a questo proposito dimenticare altri, il nome più famoso dei quali è forse Benelli, che per correggere i gradi da minimi a moderati di ipertrofia proposero una tecnica basata sul modellamento della ghiandola a partire dalla sola incisione – e relativa cicatrice – periareolare.
Secondo la classificazione di autori quali Regnault e Hetter, possiamo parlare di ipertrofia mammaria di grado lieve per volumi di tessuto ghiandolare adiposo da rimuovere attorno ai 200 cc, di ipertrofia moderata per volumi fino ai 500 cc e di ipertrofia severa per volumi fino agli 800 cc. Parleremo invece di gigantomastia o macromastia in caso di volumi ancora superiori.
In linea generale possiamo dire che approcciarsi alla riduzione del seno costringe gli operatori a “ragionare” sotto due aspetti.
Il primo squisitamente medico. Parliamo di tessuti con tutte le loro precipue caratteristiche, della loro fisiologia, della loro vitalità.
Il secondo quello di avere a che fare con superfici pressoché piane – la cute del torace – e altre a variabile grado di rotondità – la mammella vera e propria.
Questi elementi di “diversità” devono essere raccordati, fusi in un contesto armonico, per un risultato finale ottimale. Per dirla tutta nell’intervento di mastoplastica riduttiva i chirurghi devono ragionare da chirurghi e, nel contempo, ragionare da sarti, al fine di ottenere la difficile sintesi di forme, volumi e tonicità delle mammelle, pagando nel contempo il minor dazio possibile, sotto forma degli inevitabili esiti cicatriziali che questo intervento comporta. Possiamo oggi ben dire che nel contenimento dell’estensione delle cicatrici, in particolare la branca orizzontale sottomammaria – il suo contenimento all’interno del solco che ne riduce fino ad annullarne la visibilità – nella tecnica con cicatrici a T rovesciata, certamente la più comune nella mastoplastica riduttiva, si esprime gran parte dell’abilità dello specialista.
Come già abbiamo accennato, la precipua difficoltà nella riduzione del seno è quella di assicurare la totale vitalità ai tessuti trattati, coniugandola con una congrua e importante riduzione del loro volume. Questo comporta inevitabilmente un sacrificio di una quota non trascurabile dell’apporto vascolare, arterioso e venoso, necessario al mantenimento della vitalità di tutto l’insieme. Naturalmente l’areola ed il capezzolo occupano un ruolo centrale in questa problematica. Le considerazioni legate alla loro funzione, all’estetica della mammella, alla sensibilità, sono talmente ovvie da rendere inutili ulteriori commenti.
C’è però un dettaglio anatomico che deve essere posto all’attenzione e che rende comprensibili, anche ad un profano, i meccanismi che generano il rischio legato ad una loro sofferenza. Non dimentichiamo che le complicazioni legate a vario titolo alle areole ed ai capezzoli sono le più note e non a caso quelle che generano il maggior timore e resistenza nelle pazienti verso la mastoplastica riduttiva. Le areole ed i capezzoli si trovano al centro del cono mammario. Possiamo dire a buon diritto alla sua sommità, all’apice della piramide che possiamo idealmente considerare essere la mammella. Questa semplice evidenza comporta però dei problemi relativi alla vascolarizzazione di questi tessuti. Il percorso che i vasi sanguigni devono seguire a partire dal torace per raggiungerli, è lungo e tortuoso. Questo fatto comporta il rischio che nelle demolizioni troppo ampie, eseguite allo scopo di ridurre al massimo i volumi mammari, il sacrificio richiesto ai vasi sanguigni sia di portata tale da non poter assicurare sufficiente apporto sanguigno, non alla base della mammella, a contatto del torace, ma al suo apice, costituito per l’appunto dai complessi areola/capezzolo. Una buona parte della complessità tecnica nella riduzione del seno si gioca sul corretto bilancio fra necessità di ridurre i volumi e nel contempo assicurare la futura vitalità ai tessuti rimasti.
Se da un lato è logico il desiderio delle pazienti di liberarsi finalmente e definitivamente di un fardello che grava sulle loro spalle, sulla colonna vertebrale, generando nei casi più gravi vere e proprie deformità scheletriche, altrettanto è necessario bilanciare l’aggressività chirurgica con la necessità di conservare vitalità e sensibilità dell’insieme. Non a caso tutte le tecniche operatorie sono basate sull’identificazione e sulla massima conservazione di un peduncolo vascolare di sufficiente portata atto ad assicurare il necessario apporto sanguigno all’insieme dei tessuti, di cui le areole ed i capezzoli costituiscono le punte di diamante. Parleremo infatti di tecniche a peduncolo superiore, a peduncolo centrale, a peduncolo inferiore.
Nei casi estremi di gigantomastia può seriamente essere presa in considerazione l’opzione dell’innesto libero dei complessi areola capezzolo, con il sacrificio della loro funzionalità, ma con elevate probabilità della loro sopravvivenza. Tutte queste denominazioni sono inerenti all’elemento centrale intorno al quale ruota la sostanza del problema; quello di assicurare la vitalità della porzione più delicata di tutto il complesso, cioè l’areola ed il capezzolo.
Non a caso tutte le patologie vascolari, la non perfetta funzionalità dei meccanismi della coagulazione del sangue devono essere attentamente valutate e indagate prima di procedere all’intervento di mastoplastica riduttiva. Questo discorso vale anche per gli stili e le abitudini di vita delle pazienti. Uno per tutti, il fumo di sigaretta, che riduce in maniera sostanziale la quota dei globuli rossi portatori di ossigeno nel sangue arterioso destinato a nutrire i tessuti, costituisce un fattore di rischio grave e, per i forti fumatori, una controindicazione assoluta ad operarsi.
Da tutto quanto abbiamo esposto è possibile immaginare quale sia il portato, tanto fisico quanto emotivo, che avvicinerà le pazienti alla mastoplastica riduttiva. Ridurre il seno è intervento complesso, con indicazioni precise, enormi vantaggi tanto sul piano estetico che su quello fisico e, ovviamente, rischio di complicazioni e limiti.
Partiamo dall’età. Dal momento che lo sviluppo mammario è controllato dagli ormoni e mediato dalla risposta dei tessuti che è geneticamente predeterminata, operare prima che lo sviluppo fisico sia completato, se escludiamo casi particolarissimi che esulano questa trattazione, non avrebbe senso. Parliamo quindi di pazienti dai sedici/diciotto anni in avanti, allorquando lo sviluppo fisico può dirsi completato.
Un altro elemento di grande importanza è legato al peso corporeo, specialmente se parliamo di pazienti obesi. Oltre a criteri di esclusione di competenza anestesiologica, legata alla difficoltà di ventilazione polmonare, alla gestione degli squilibri idroelettrolitici sempre possibili in questi soggetti e alla difficoltà di guarigione delle ferite di cui le turbe del profilo glicemico, tipiche degli obesi, sono corollario, dobbiamo considerare ulteriori elementi.
La mammella è costituita da cute, mucose, ghiandola mammaria e grasso, oltre a vasi sanguigni, linfatici e tessuto connettivo. Le mammelle nelle quali la componente adiposa è particolarmente abbondante, tendono ad essere relativamente poco vascolarizzate, il che comporta tutta la serie di problematiche alle quali abbiamo fatto cenno nelle precedenti sezioni. Oltre a tutto, dobbiamo prevedere che gli sbilanci di peso hanno un impatto notevole da un punto di vista estetico. Operare un soggetto dal peso corporeo stabilizzato, produce un risultato stabile nel lungo periodo. Sottoporre all’intervento di mastoplastica riduttiva o riduzione del seno come preferiamo chiamarlo, una paziente che è destinata a veder calare il proprio peso di dieci chili e oltre, vedrà la componente adiposa delle mammelle pesantemente impoverita e quindi il risultato estetico mutare di conseguenza. Quindi, in previsione di questo intervento raggiungere un peso stabile è la condizione migliore per assicurarsi un risultato stabile nel futuro.
Un ulteriore elemento determinante è avere rispetto ai risultati della mastoplastica riduttiva aspettative realistiche. Passare da una mammella di una sesta misura ad una seconda, è tecnicamente possibile, ma nei fatti rischiosissimo, per tutto quanto abbiamo diffusamente esposto in precedenza. Se certi desideri delle pazienti sono comprensibili, è fondamentale che l’esperienza e l’onestà intellettuale del professionista sappia mediare fra il portato emotivo di chi si trova davanti e ciò che è scientificamente sensato realizzare in sala operatoria. Fughe in avanti possono essere in questo ambito foriere di complicazioni molto serie e dolorose, alle quali può non essere semplice porre rimedio. Un seno ipertrofico, a maggior ragione se marcatamente ipertrofico, non può non essere in varia misura ptosico. Questa condizione, la ptosi mammaria, viene corretta dall’intervento di riduzione del seno, il quale non solo riduce in maniera congrua il volume mammario, ma riporta la posizione dei complessi areola/capezzolo al di sopra di quella linea ideale passante al livello dei solchi sottomammari, il superamento della quale definisce il grado di ptosi.
Una ulteriore condizione alla quale la mastoplastica riduttiva può porre rimedio, è l’eccessiva circonferenza delle areole, condizione che quasi costantemente si accompagna, anche in maniera asimmetrica, all’ipertrofia mammaria. Se le pazienti lo desiderano, e questo accade di routine, è possibile ridurre tali circonferenze, armonizzandole nel contesto del nuovo volume e della forma che la riduzione del seno andrà a scolpire.
Riprendendo quanto in parte già detto, l’età, fatto salvo il completamento dello sviluppo fisico delle pazienti, non rappresenta un problema per pianificare l’intervento di mastoplastica riduttiva. Le condizioni di disagio psicofisico che conducono a valutare l’opzione di ridurre il seno possono manifestarsi tanto precocemente quanto successivamente nell’arco della vita della donna. Una paziente giovane può soffrire del disagio causatole da un seno troppo grande vedendosi limitata nella vita di tutti i giorni, mi riferisco tanto alle relazioni personali, in generale alla vita sociale ed anche alle situazioni in ambito lavorativo, dove un seno troppo grande può essere vissuto come problematico. La possibilità di svolgere attività fisica anche intensa, considerata oggi come una opzione concreta e facente capo alla cura di sé dalla grande maggioranza delle donne, può venire seriamente limitata dall’ipertrofia mammaria.
Allo stesso modo queste identiche situazioni possono essere appannaggio di donne più adulte, nelle quali gli sbilanci di peso frutto di scelte e situazioni personali e familiari, per non parlare delle gravidanze, magari ripetute, con il corollario dell’allattamento, non di rado lasciano in eredità un seno di dimensioni sproporzionate, eccessivamente – usiamo il termine – florido, oltreché esteticamente impoverito, svuotato nei poli superiori e inflaccidito, pur avendo conservato un volume eccessivo. Situazioni di questo tipo sono estremamente comuni e sono quelle che i chirurghi plastici si sentono comunemente raccontare nel corso delle prime visite. Una ulteriore possibilità, invero anch’essa comune, è che le due situazioni che abbiamo raccontato scivolino una nell’altra, nel racconto di tante donne che fin da giovani hanno vissuto e subito la condizione di un seno eccessivamente voluminoso che nel corso della vita ha subito tutti i cambiamenti ai quali l’esistenza stessa ti porta, finendo per condizionare la qualità della vita, ma che per svariati motivi, economici, culturali, familiari e quant’altro, non hanno mai potuto seriamente considerare la possibilità di sottoporsi all’intervento per ridursi il seno. Quante volte, alla fine della visita specialistica, il chirurgo si sente dire dalle proprie pazienti: < finalmente ho preso la decisione di fare nella vita qualcosa per me! >
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La mastopessi si rende necessaria nel momento in cui per la mammella, superato un determinato grado di ptosi, non è più possibile vedere corretto l’impoverimento dei poli superiori e il deficit di tono, con il semplice incremento del volume, ottenibile con l’impianto delle protesi mammarie. Ricordiamo a questo proposito che la ptosi mammaria, dal I al IV grado, è definita dall’allungamento della distanza dei complessi areola/capezzolo da un punto fisso, solitamente l’incisura del giugulo, posta al centro del collo. Per non confondere le pazienti con una serie di dati e numeri, misure e quant’altro, basti sapere che nel momento in cui i complessi areola/capezzolo “scendono” al di sotto di una linea ideale che passa orizzontalmente per il solco sottomammario, la ptosi ha raggiunto un livello tale per cui il semplice impianto delle protesi, con relativo aumento del volume, non risulterebbe più sufficiente alla sua correzione e si rende quindi inevitabile la mastopessi. Per non ingenerare confusione va subito però detto che mastopessi e impianto di protesi non sono procedure necessariamente in antitesi, potendo trovare la loro ragione d’essere in quei casi dove la ptosi si accompagna ad un grado importante di ipotrofia mammaria, quando cioè la componente ghiandolare adiposa si riduce ai minimi termini, se non virtualmente scompare. In queste situazioni è imperativo correggere l’estetica della mammella agendo tanto sulla ptosi, riportando i complessi areola capezzolo alla giusta distanza dal giugulo e al centro dei coni mammari, quanto sul volume, allo scopo di riottenere un seno tonico e armonico.
Non dobbiamo fare però l’errore di considerare la ptosi mammaria come un “difetto” ineluttabile. La mammella non è costituita unicamente dal tessuto ghiandolare adiposo, le cui quantità e rapporti variano a seconda dell’età e del profilo genetico della donna. La mammella è costituita anche da tessuto connettivo, dai legamenti sospensori e dalle fasce. Il fisiologico invecchiamento di questi tessuti con progressiva perdita della loro elasticità e “resistenza” all’azione della gravità provoca, specialmente in seni voluminosi e quindi pesanti, quel fisiologico “appoggiarsi” verso il basso, con progressiva perdita della proiezione del “cono mammario” così tipico del seno giovanile. Non dimentichiamoci poi che i fisiologici incrementi di volume delle mammelle, figli delle gravidanze e dell’allattamento ed il loro venire meno, cessati gli stimoli ormonali che li hanno provocati, hanno un effetto importante sulla “tenuta” del complesso dei legamenti che sostengono il seno, con i risultati che sono oggetto di questa nostra discussione.
Potremmo anche definire la ptosi mammaria come il risultato finale di una raggiunta “incongruità” fra il “contenitore” costituito dalla cute mammaria che perdendo di elasticità di fatto si allunga e aumenta le proprie dimensioni e il “contenuto” costituito dal tessuto ghiandolare adiposo, la cui quantità inevitabilmente varia a seconda dell’età, dello stato di nutrizione del soggetto, delle leggi della genetica, nel senso della risposta più o meno marcata ed efficace agli stimoli dovuti agli ormoni femminili. Nel momento in cui viene meno l’armonia fra questi due elementi, la ptosi delle mammelle diventa inevitabile, costituendosi da semplice connotazione fisiologica a vero e proprio marcato inestetismo, il quale richiede per la sua risoluzione solamente l’intervento chirurgico. Dobbiamo comunque sempre ricordare come un seno voluminoso e quindi pesante, oppure “provato” dall’età e dagli avvenimenti della vita necessiti sempre e comunque di essere sostenuto. Un reggiseno capace di dare sufficiente sostegno al seno non potrà non essere un compagno ideale per mantenere quanto più possibile nel tempo l’estetica delle mammelle entro i canoni ideali.
Come abbiamo in precedenza sottolineato, l’intervento di mastopessi, o di mastopessi con protesi, diventa una scelta obbligata nel momento in cui la ptosi mammaria, che torniamo a definire come l’effetto del progressivo allungamento della distanza dei complessi areola/capezzolo da un punto fisso, solitamente l’incisura del giugulo al centro del collo, supera un limite tale per cui il semplice impianto delle protesi, cioè il semplice aumento del volume mammario, non è più in grado di risollevare la posizione dei capezzoli, riportandoli correttamente al centro dei coni mammari, correttamente proiettati. Ribadiamo a beneficio di chi ci legge, che la loro posizione al di sopra o al di sotto di un piano ideale passante per il solco sottomammario è un parametro sufficientemente semplice per consentire alle pazienti una prima ideale diagnosi differenziale riguardante le metodiche atte alla soluzione di questo inestetismo. Una mammella eccessivamente svuotata, con i complessi areola/capezzolochiaramente al di sotto dei solchi sottomammari, non può vedere corretta la propria condizione se non mediante la mastopessi, integrata o meno da un ulteriore apporto volumetrico frutto del contestuale impianto di protesi.
Da tutto quanto abbiamo ripetuto, la risposta alla domanda: “l’intervento di mastopessi costituisce nei miei riguardi una corretta indicazione chirurgica?” dovrebbe trovare da parte della donna una prima risposta, frutto della semplice osservazione allo specchio. Ovviamente questa forma di autodiagnosi non sarà mai sostitutiva di un colloquio con lo specialista chirurgo plastico, il quale è deputato a dare risposte esaurienti a tutte le domande che le pazienti di volta in volta porranno, identificando anche quei casi dubbi dove la diagnosi potrebbe apparire meno ovvia e certa.
In poche parole, una mammella in predicato di essere sottoposta alla mastopessi non può che presentarsi svuotata in maniera più o meno ampia, a partire dai poli mammari superiori. Frequentemente impoverita nella sua componente ghiandolare/adiposa, una mammella nella quale l’involucro, il mantello cutaneo, risulta eccedere in maniera sostanziale il tessuto nobile. Sono questi i casi più tipici, dove la discrepanza fra componente ghiandolare e cute di rivestimento è preponderante. Esistono però delle ptosi mammarie nelle quali l’elemento ptosi rappresenta l’unica manifestazione di questo inestetismo. Quindi possiamo dire seni floridi, ma svuotati nei poli superiori per via del cedimento dei legamenti sospensori. Mammelle volumetricamente importanti, scarsamente contenute e sostenute da reggiseni di adeguata taglia e fattura, nei quali, a lungo tempo, la gravità produrrà gli effetti di cui stiamo ora dibattendo.
Non esiste una età ideale nella quale sottoporsi all’intervento di mastopessi o di mastopessi con impianto di protesi. Essendo la ptosi mammaria un effetto e non una causa, è infinito il numero di variabili che sole, o in combinazione le une con le altre, possono generarla. La prima cosa alla quale si pensa è l’effetto delle gravidanze e degli allattamenti. Le mammelle, sostenute dagli stimoli ormonali necessari allo svolgimento delle loro mansioni biologiche, aumentano di volume e quindi si appesantiscono, per poi svuotarsi e ridursi nel momento in cui questi stimoli vengono a cessare. Esistono però anche mammelle giovanili le quali, per via della loro condizione florida, subiscono maggiormente l’effetto della gravità essendo trascinate verso il basso dal loro peso. Anche queste mammelle sarebbero candidate alla mastopessi. Ovviamente una scelta del genere deve avvenire a sviluppo psicofisico completato. Intervenire chirurgicamente su di una anatomia ancora in fase evolutiva renderebbe di fatto impossibile un risultato duraturo nel tempo. Qualunque quadro in questo senso evolutivo dovrebbe essere reso in prima battuta stabile e solo successivamente essere oggetto di una qualsivoglia procedura chirurgica.
Nonostante le pazienti giungano frequentemente al colloquio con lo specialista già sufficientemente informate, relativamente alla loro situazione e alle possibilità migliorative che la chirurgia offre, cionondimeno il colloquio con il chirurgo estetico costituisce un momento dal quale non è bene prescindere. L’intervento chirurgico, qualunque esso sia, non è un prodotto finito, acquistabile come tale e in quanto tale a prescindere da chi lo propone e da chi è determinato al suo acquisto. Una automobile è sempre la stessa, indipendentemente dal luogo fisico o virtuale nel quale viene ordinata, pagata e ritirata. Essendo l’essere umano qualcosa di unico, tutto ciò che lo riguarda dovrà essere tagliato e cucito su misura. Nella visita specialistica si valuteranno in primis le condizioni generali di salute del paziente, eventuali abitudini o stili di vita che potrebbero controindicare la scelta dell’intervento in questione. Il chirurgo valuterà la qualità dei tessuti, il loro grado di elasticità e consistenza, tutto questo in prospettiva di un risultato finale in linea con le aspettative a breve e lungo termine della paziente e nell’ottica di possibili complicazioni o mutamenti che potrebbero nel tempo manifestarsi. Eventuali casi dubbi, dove la soluzione chirurgica potrebbe essere non univoca e dove, addirittura, la mastopessi potrebbe, traendo un bilancio complessivo, non costituire la scelta idonea. Questo percorso paziente e chirurgo lo compiono insieme, arrivando a definire tutto il contorno di situazioni e relazioni che all’intervento fanno capo. In questo modo la paziente si approccerà all’intervento con le idee più chiare sulla strada che ha deciso di intraprendere.
Come abbiamo ricordato in precedenza, l’obiettivo dell’intervento di mastopessi è quello di ricompattare il tessuto ghiandolare/adiposo, ripristinare la forma e la proiezione dei coni mammari, ridare pienezza ai poli mammari superiori che appaiono in varia misura svuotati, riportare al centro dei coni mammari stessi i complessi areola/capezzolo, che hanno perduto la posizione e l’orientamento originario, tendendo assai di frequente a “guardare” verso il basso. Va da sé che in questi casi è necessario ricreare le proporzioni fra il tessuto nobile della mammella e la cute di rivestimento, diventata eccedente, con perdita di tono di tutto l’insieme. Essendo le caratteristiche fisiche ed il grado di ptosi mammaria differenti da soggetto a soggetto, si può facilmente immaginare come, a partire da alcuni concetti di base, sia inevitabile adattare le singole tecniche alla situazione che si deve gestire. La determinazione, potremmo dire di qualunque intervento chirurgico, è sempre quella di ottenere il massimo risultato con i minimi residuati cicatriziali, vale a dire riducendo le incisioni chirurgiche al minimo.
Imprescindibile è l’incisione periareolare completa, necessaria per “lasciare libere” le areole di essere riposizionate correttamente e, come spesso accade, necessaria per permettere di ridurre la loro circonferenza in un contesto dove tutti i rapporti fra le varie componenti della mammella devono ritornare armonici. Nei casi più semplici, dove il grado di ptosi mammaria risulta minimo e le mammelle appaiono di volume da piccolo a moderato, quindi non eccessivamente pesanti, la tecnica chirurgica basata su questa singola incisione può risultare sufficiente. Si parlerà in questo caso di mastopessicon tecnica “Round Block”.
Nella maggioranza dei casi sarà però necessario, dal momento che la cute del rivestimento mammario da rimuovere dovrà essere cospicua e coinvolge i quadranti mammari inferiori, associare all’incisione periareolare anche quella verticale, condotta dal margine inferiore delle areole fino al limite dei solchi sottomammari. Per quanto questo accesso chirurgico e la relativa cicatrice siano difficili da nascondere, una volta rimossa la biancheria che li copre, va però anche detto che questa incisione permette di rimuovere la cute in eccesso in maniera cospicua, dando quindi al chirurgo la possibilità di conizzare la mammella in maniera ottimale.
Quando invece il chirurgo si trova a dover gestire un grado di ptosi particolarmente marcato, associato a mammelle di volume importante, non sarà possibile esimersi dall’incisione localizzata nel solco sottomammario, naturalmente in associazione alle altre due prima esposte: quella periareolare e quella verticale inferiore. Avremo in questo caso la classica T rovesciata, forse la più comune fra tutte le incisioni della mastopessi. La bravura del chirurgo consisterà in questi casi nell’ “ottimizzare” la rimozione della cute con la creazione di un nuovo cono mammario, allo scopo di contenere la cicatrice ben all’interno dei solchi sottomammari, rendendola di fatto scarsamente accessibile alla vista. La stessa cicatrice orizzontale può estendersi all’intera lunghezza del solco sottomammario, oppure vedere ridotta al minimo la sua estensione. In determinati casi è possibile addirittura “risparmiare” dalla cicatrice una delle due metà dei solchi sottomammari, configurandosi una mastopessi con cicatrice a L
L’impianto delle protesi mammarie vede la sua ragione d’essere nel caso in cui si voglia correggere l’estetica di una mammella di volume insufficiente o in senso assoluto oppure agli occhi di quelle pazienti che “vedono” il proprio seno non armonico con il resto del proprio fisico, oppure non in linea con i propri canoni estetici. Parliamo comunque di mammelle sostenute, nelle quali i complessi areola/capezzolo sono ben posizionati al di sopra dei solchi sottomammari, rendendo di fatto la correzione dell’inestetismo ottenibile con il semplice implemento del volume. Una condizione quindi diametralmente opposta a quella che, in tutte le sue sfumature, abbiamo trattato fino ad ora. L’associazione di queste due metodiche, mastopessi e impianto protesi, potrebbe quindi risultare poco comprensibile. Il razionale di questo approccio si ha in quei casi nei quali ipotrofia mammaria e ptosi raggiungono livelli talmente marcati per cui anche ricompattando al massimo grado il tessuto mammario residuo il tono delle mammelle che residuerebbe non sarebbe comunque ottimale e a dirla tutta nemmeno sufficiente. Inoltre l’ulteriore eccedenza di cute che il ricompattamento della componente ghiandolare provocherebbe, “costringerebbe” il chirurgo a estendere la cicatrice orizzontale anche oltre i limiti dei solchi sottomammari, con un risultato estetico nel complesso inaccettabile. In questi casi l’impianto delle protesi mammarie non deve essere letto in prima battuta come frutto del desiderio di aumentare il volume delle mammelle, quanto figlio della volontà di migliorarne il tono complessivo e, riequilibrando almeno in parte il rapporto di proporzione con la cute in eccesso, favorirne la rimozione a prezzo di cicatrici estese entro limiti accettabili.
La predilezione di chi scrive va in questa ottica a protesi di piccolo/medio volume, allo scopo di non appesantire la mammella e sottoporre a eccessiva tensione il complesso delle suture. Impianti di forma rotonda, in quanto il profilo rotondo si adatta meglio al riempimento dei poli mammari superiori che la ptosi mammaria di fatto impoverisce, di profilo medio/alto, dal momento che il grado di conizzazione delle mammelle lo stabilisce il chirurgo sulla base della propria visione estetica e di concerto con la paziente, evitando di fatto che un profilo delle protesi troppo alto estremizzi l’estetica dei coni mammari, rendendo tutto il complesso poco naturale.
La mastopessi non è un intervento breve. Difficile ipotizzare tempi operatori inferiori alle tre ore. L’anestesia prescelta è solitamente quella generale, associata al ricovero di una notte in osservazione. Naturalmente esiste la possibilità di dimettere la paziente in giornata, configurandosi un Day Hospital, previa ovviamente una verifica accurata delle condizioni generali e verificata l’esistenza di un supporto reale ed efficace al domicilio.
Non esiste un particolare modo di prepararsi all’intervento di mastopessi o, a questo punto possiamo dire, all’intervento di mastopessi con protesi. Diamo per scontata l’esecuzione degli esami preoperatori di routine, dell’elettrocardiogramma e, come per qualunque intervento sulla mammella, almeno di una ecografia recente. Possiamo e dobbiamo dire che a abitudini di vita quali il fumo, si parla ovviamente di fumatori accaniti, deve essere posto un freno. Parliamo di un intervento chirurgico aggressivo ed invasivo, dove il ridotto apporto di ossigeno ai tessuti, condizione tipica dei forti fumatori, può avere effetti molto seri, ovviamente in negativo, sui processi di guarigione delle ferite, di cicatrizzazione e in generale sui meccanismi di guarigione e preservazione dell’integrità dei tessuti. Per parlarci chiaro, un fumatore che non ottempera al consiglio del medico di ridurre fino a smettere da almeno trenta giorni prima della data stabilita, andrebbe rimandato a casa. I rischi ci sono e non vanno minimizzati.
L’intervento di mastopessi si esegue in anestesia generale e deve essere appannaggio di strutture sanitarie perfettamente all’altezza di gestire pazienti e problematiche inerenti ad interventi di questo genere. Può essere eseguito in una clinica o in struttura di day hospital perfettamente attrezzata. L’intervento ha una durata media di tre ore, tre ore e mezza, indipendentemente dalla tecnica prescelta. La medicazione postoperatoria di solito si limita ad un reggiseno sportivo contenitivo, oltre ovviamente alla protezione delle suture con garze e cerotti sterili. Le medicazioni, fino alla rimozione dei punti, vengono scaglionate e diluite nell’arco di due settimane al massimo. Il recupero delle normali attività si ha nell’arco di un paio di settimane, mentre per l’attività fisica intensa conviene attendere non meno di trenta giorni. Nel complesso si tratta di una procedura più gestibile e assai meno limitante di quanto le pazienti potrebbero essere indotte a pensare. Ecchimosi e lividi, oltre alla riduzione della sensibilità, sono di breve durata.
Sotto questo aspetto non possiamo che ribadire quanto già enunciato in precedenza. La fase postoperatoria, tanto in clinica quanto a domicilio, non presenta di solito particolari criticità. Le pazienti, protette dalla medicazione costituita dal reggiseno ortopedico/contenitivo, riacquistano dimestichezza con i normali movimenti degli arti e del torace della vita quotidiana in pochi giorni. Tumefazione, un determinato grado di gonfiore, ecchimosi, sono corollario di qualsivoglia intervento chirurgico e sotto questo aspetto la mastopessi non fa eccezione. Possiamo però ribadire che in linea di massima i disagi risultano limitati. Potremmo anche dire che l’intervento in sé risulta maggiormente aggressivo di quanto le sequele postoperatorie lascino immaginare. Come nell’evoluzione di un qualunque trauma, occorso per cause naturali o prodotto dal chirurgo, la risposta individuale dell’organismo risulta estremamente variabile. Detto in questo modo risulta quasi impossibile stabilire dei tempi di recupero certi. L’esperienza però insegna che tolti casi particolari che vanno dal recupero “lampo” al disagio prolungato, la tempistica media ricalca i tempi e i modi che abbiamo descritto. La dolorabilità generale scompare in una settimana. Una certa disinvoltura la si recupera nell’arco di quindici giorni e una completa libertà di movimenti e comportamenti, non prima di trenta. Anche il ripristino della sensibilità ripercorre questi passaggi. Inizialmente assente, tende poi a ritornare in maniera inizialmente disomogenea, con addirittura accenti di ipersensibilità, che non di rado allarma le pazienti, localizzata nella maggioranza dei casi alle areole ed ai capezzoli. Tutte queste situazioni tendono a normalizzarsi col passare del tempo, fino al recupero della condizione precedente l’intervento. Possiamo a questo punto fare un semplice accenno ad un aspetto invero non secondario, quello della ripresa dell’attività sessuale. In realtà non vi è molto da aggiungere a quanto detto in precedenza. Nulla in verità osta alla ripresa dell’attività sessuale. Parliamo pur sempre di una zona, torace e mammelle, appena operate ed in recupero fisico. Il buon senso, oltre che il semplice istinto, suggeriscono cautela nei gesti e nei modi. Non vi è altro da aggiungere.
Il fine ultimo dell’intervento di mastopessi, o di mastopessi con protesi, è quello di restituire alla donna un seno tonico, di forma e volume consoni alle dimensioni del torace che lo deve accogliere. In una parola un seno nuovamente estetico e armonico nelle sue componenti. Con il tempo, e qui parliamo di non meno di dodici mesi, anche le cicatrici avranno la loro normale evoluzione, diventando più fini e sottili. Se questo tardasse ad avvenire diciamo spontaneamente, è previsto l’ausilio di prodotti quali i cerotti in silicone ed altri presidi, che possono aiutare il processo ad evolvere entro i canoni consueti. Non dimentichiamo che l’intervento fissa una situazione che poi riprenderà il proprio naturale ciclo biologico. I tessuti ricominceranno ad invecchiare come tutto il resto dell’organismo e quindi il risultato si modificherà col passare del tempo. L’importante è che l’insieme mantenga un carattere armonico e di soddisfazione per la paziente.
Tornerete dal vostro chirurgo plastico per il follow-up a intervalli regolari, momento in cui i vostri progressi saranno valutati. Una volta che l’immediato follow-up post-operatorio è completo, molti chirurghi incoraggiano i loro pazienti a tornare per controlli periodici per osservare e discutere i risultati a lungo termine della chirurgia di mastopessi.
Ricordiamo che il rapporto con il vostro chirurgo plastico non finisce quando si esce dalla sala operatoria. Se avete domande o dubbi durante il recupero, o avete bisogno di informazioni aggiuntive in un secondo momento, è opportuno rivolgersi al chirurgo.
La mastopessi, come qualunque procedura chirurgica, o più in generale medica, non è a priori esente da complicazioni e rischi. Alcuni di questi riguardano le condizioni generali dei pazienti, ovviamente in relazione alle procedure alle quali si avvicinano. In linea generale, la formazione di ematomi, che possono richiedere anche il drenaggio chirurgico, sieromi, tumefazioni e/o ecchimosi, la cui durata può prolungarsi nel tempo, sono complicazioni appannaggio di tutta la chirurgia, maggiore o minore e quindi anche della mastopessi. Esistono rischi legati alle condizioni generali di salute delle candidate, ovviamente nell’ottica dell’intervento. Pazienti con documentate alterazioni metaboliche, che potrebbero configurare dei ritardi di guarigione delle ferite, pazienti con particolari profili degli esami della coagulazione sanguigna, andrebbero attentamente valutati nello screening preoperatorio, fino a porre un veto sull’esecuzione dello stesso. Pazienti instabili dal punto di vista psicologico devono essere valutate con attenzione, dal momento che parliamo di un intervento comunque di una certa rilevanza e con un percorso di restitutio ad integrum non inferiore ai trenta/quaranta giorni.
Quello su cui è bene porre l’accento è che il paziente non deve mai essere lasciato solo, anche in quelle occasioni – e sono la maggioranza – in cui tutto procede per il meglio, senza quindi ritardi o intoppi. Il chirurgo deve sempre porsi come riferimento per la gestione di qualsivoglia aspetto inerente l’intervento, in modo da tranquillizzare i pazienti che vedono di fronte a loro un percorso chiaro. È bene ricordare che il supporto del chirurgo nella fase postoperatoria ha la stessa valenza e importanza della professionalità in sala operatoria.
Le protesi mammarie, o sarebbe più corretto definirle “impianti mammari”, sono dispositivi medici la cui messa in commercio ed utilizzo è regolamentata da una legislazione alquanto precisa e severa, in particolare dal D.L pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 febbraio 1997, n. 46, in attuazione della Direttiva della Comunità Europea n. 93/42/EEC. Stante la tipologia del loro utilizzo, cioè quella di essere impiantati nell’organismo umano potendovi permanere per lungo tempo, addirittura senza che sia prevista con criterio assoluto una data di scadenza che renda imperativo il loro espianto o la loro sostituzione, il loro inquadramento è quello di “dispositivi medici di classe III” la classe di rischio considerata più elevata. Va da sé che per questi motivi gli Enti o gli Organismi deputati a rilasciare i Certificati di Conformità,che in ambito Europeo sono sintetizzati dal famoso marchio CE, senza il quale nessun prodotto o dispositivo, che si tratti di un giocattolo per bambini, di un utensile per la casa od il lavoro, fino ad uno specifico prodotto per uso medico, può essere commercializzato, distribuito ed utilizzato nell’ambito della Comunità Economica Europea. A questo proposito è bene ricordare, per completezza di informazione, come le Legislazioni dei singoli Stati non siano sempre convergenti, nemmeno su questi aspetti, il che rende ragione del fatto che a volte vengano resi disponibili, attraverso canali non ufficiali, prodotti di qualsiasi genere, quindi anche materiale sanitario, approvato per l’utilizzo in certi paesi e non in altri. Per quanto le legislazioni e forse più ancora i criteri di valutazione e certificazione in ambito sanitario, almeno per l’Europa e il Nord America, Canada compreso, tendano ad uniformarsi, non possiamo parlare di assoluta identità a questo proposito.
Introdurre il discorso sugli impianti – o sulle protesi mammarie – significa aprire una sorta di mondo. A partire dai volumi – dai più modesti a quelli più grandi, fino a quelli esagerati – non c’è né uno che non possa fare al caso della situazione che si va ad affrontare. Il medesimo discorso va fatto per le proiezioni degli impianti. Proiezioni o profili bassi, medi (o più elegantemente indicati come demi), protesi ad alta proiezione o, addirittura extra proiettate. Nel catalogo di tutte le Aziende Produttrici è possibile reperire il prodotto più confacente a soddisfare gusto estetico e indicazioni chirurgiche. Sotto questo aspetto il ventaglio di opzioni disponibili è altissimo. Relativamente alla forma delle protesi mammarie, possiamo identificare delle principali tipologie. In prima battuta, fatti salvi profili e proiezioni, la forma rotonda. Costituita da una base, o un fondo, se così lo vogliamo chiamare, piatto, presentano una rotondità ad arco costante. Per semplicità immaginiamo una sfera perfetta, divisa in due. La seconda categoria è quella degli impianti di forma cosiddetta anatomica. In queste protesi, le caratteristiche costruttive, unite alla tipologia del gel di silicone utilizzato, fanno si che l’impianto presenti – e ovviamente mantenga una volta inserito nel torace – una forma cosiddetta a goccia, con il polo inferiore assai maggiormente rappresentato, rispetto al polo superiore dal profilo assai più sfumato. Queste protesi avrebbero dalla loro parte una forma più naturale, garantendo una maggiore similitudine della mammella protesizzata con quella non protesizzata, soprattutto di età matura. Di contro, avendo due diametri, verticale e orizzontale, differenti, il rischio di deformità estetica in conseguenza della loro rotazione all’interno delle tasche protesiche, è presente e ampiamente documentato in letteratura scientifica, cosa di cui le pazienti devono essere rese edotte in sede di visita preoperatoria. Questa possibilità risulta ovviamente nulla negli impianti di forma rotonda, indipendentemente dal loro volume o profilo. Per tutti gli impianti in silicone esiste la teorica possibilità del ribaltamento, specialmente per le protesi extra proiettate. In particolarissime situazioni, la elevata proiezione, unita alla minore circonferenza di base, a parità di volume con impianti di diversa tipologia, potrebbe favorire più che la semplice rotazione, addirittura il loro ribaltamento. In tempi recentissimi, grazie ai progressi legati alla chimica del gel di silicone, alla sua fluidità ed alla sua coesività anche differenziata all’interno dell’involucro protesico, si è affermata sul mercato una nuova tipologia di impianti, cosiddetti ergonomici. Questo tipo di protesi racchiuderebbero i vantaggi delle protesi rotonde, cioè l’assenza di deformità estetica in caso di rotazione, ininfluente stante la forma rotonda della protesi, con quelli delle protesi anatomiche. Il venir meno cioè della ipercorrezione dei poli mammari superiori, timore spesso paventato dalle pazienti come segno patognomonico di un seno rifatto. In dettaglio, le protesi cosiddette ergonomiche nascono rotonde ed in posizione orizzontale esse appaiono indistinguibili da un impianto rotondo vero e proprio. Nel momento in cui il torace delle pazienti assume la posizione verticale, le caratteristiche del gel in esse contenuto fa si che esso migri leggermente verso i poli inferiori, evitando l’eccessiva proiezione di quelli superiori. Una “sintesi” ottimale che ha conferito a questa tipologia di impianti una sempre maggiore notorietà. L’utilizzo degli impianti mammari a scopo ricostruttivo e poi estetico, ha una lunga storia, iniziata attorno agli anni 60. Ovviamente le caratteristiche costruttive delle protesi sono cambiate, e non poco, nel corso degli anni. Possiamo oggi parlare di prodotti altamente affidabili, con percentuali di complicazioni dipendenti dagli impianti, in costante diminuzione.
Quando parliamo di protesi mammarie in gel di silicone, ci riferiamo al contenuto delle protesi, essendo l’involucro esterno sempre costituito da silicone, naturalmente in forma solida e non di gel. Dobbiamo innanzitutto ricordare che il silicone, oltre ad essere costituito da due fra gli elementi in assoluto più presenti su questo pianeta – il silicio (il costituente base della sabbia e delle rocce per intenderci) e l’ossigeno – Il silicone è ampiamente utilizzato dall’industria in moltissimi campi e non solo in ambito sanitario. Sonde, cateteri, rivestimento di pace-makers ed altro ancora. Si tratta quindi di un materiale di per sé areattivo. Ciò che è cambiato nel tempo sono le caratteristiche del gel, nel senso che le protesi di ultima e ultimissima generazione contengono un gel a sempre più elevata coesività, il che annulla il rischio dello spandimento del contenuto in caso di rottura dell’involucro esterno. Questo ha portato, insieme all’aumentato coefficiente di riempimento degli impianti – altra caratteristica modificatasi nel corso degli anni – alla riduzione percentuale di una complicazione tipica dell’intervento legato all’impianto delle protesi: il wrinkling, ovvero la presenza e soprattutto la percezione dall’esterno, delle plicature dell’involucro protesico, figlie di un coefficiente di riempimento degli impianti, anche esso salito nel tempo, che si avvicina, non potendolo raggiungere, al 100% per ovvii problemi rigidità, con conseguenti inestetismi alla vista ed alla palpazione del seno.
Le protesi mammarie a contenuto salino, nelle quali cioè il materiale di riempimento dell’involucro protesico è la soluzione fisiologica sterile, hanno goduto, non tanto in Europa ma negli USA di una grande notorietà. Per molto tempo questi impianti sono stati gli unici il cui utilizzo è stato ammesso dalla FDA. Nell’ottica di trovare una alternativa al silicone quale materiale di riempimento degli impianti, sussistendo ancora dei dubbi sulla sua assenza di tossicità per l’organismo, la soluzione fisiologica ha rappresentato una sorta di uovo di colombo dal momento che il trasudamento del liquido o il suo completo spandimento in caso di rottura dell’impianto, non comportava alcun pregiudizio alla salute delle pazienti, al di fuori naturalmente di un danno estetico. Un ulteriore vantaggio delle protesi così costruite, era la possibilità di inserirle attraverso incisioni molto piccole, dal momento che esse venivano impiantate vuote e gonfiate, una volta in sede fino alla misura desiderata, attraverso una valvola allo scopo inserita alla base della protesi. La via di accesso transombelicale non sarebbe mai esistita se non legata a impianti di questo genere. Gli svantaggi di questi impianti erano però legati a due elementi determinanti. In prima battuta l’imperfetta tenuta delle valvole, che nel tempo favorivano la perdita del liquido contenuto nella protesi e di conseguenza il loro sgonfiamento. In seconda battuta una certa durezza delle protesi, legate alla incomprimibilità dei liquidi, una caratteristica fisica in nessun modo superabile. L’ammissione dell’utilizzo delle protesi in gel di silicone da parte della FDA a partire dal 2006 a decretato il tramonto di questi impianti e la loro scomparsa quasi totale dal mercato.
Abbiamo già accennato nell’introduzione all’argomento “protesi mammarie” come questi impianti si siano evoluti tecnicamente nel corso del tempo. Vale la pena di ribadire a questo proposito, come l’utilizzo delle protesi mammarie, a scopo ricostruttivo ed estetico, data dagli anni 60 e, da quel momento, i numeri sono sempre stati in continuo aumento. L’evoluzione tecnologica degli impianti mammari ha riguardato tutte le componenti delle protesi. Abbiamo già accennato alle caratteristiche del gel di silicone, il quale ha visto nel corso degli anni aumentare il coefficiente di coesività e quello di riempimento degli involucri esterni, allo scopo di ridurre la formazione delle pieghe visibili dall’esterno – il famigerato wrinkling – e la stabilità complessiva delle protesi. I cambiamenti importanti hanno riguardato anche le caratteristiche dell’involucro esterno. Gli impianti mammari nascono con gli involucri a superficie liscia e molto sottile. Queste caratteristiche, associate alla presenza all’interno di un gel piuttosto fluido, assicuravano certamente una notevole morbidezza delle protesi, a fronte però di alcune importanti complicazioni. Le prime protesi, ad involucro esterno liscio, sono state associate in percentuali importanti a quella che è tuttora considerata la complicazione principe dell’impianto delle protesi: la contrattura capsulare patologica. Come è noto, la capsula periprotesica si forma sempre, una volta posizionati gli impianti, indipendentemente dal loro posizionamento, sottomuscolare, sottoghiandolare, o in posizione dual plane. Si tratta di una reazione assolutamente fisiologica dell’organismo nei confronti del biomateriale con cui viene a contatto. Non è una reazione allergica, non è una manifestazione di rigetto e non esiste un esame di qualsivoglia tipo che indichi se il paziente è potenzialmente predisposto a svilupparla. Per la genesi di questo fenomeno, sono stati di volta in volta presi in considerazione diversi elementi. In prima battuta il cosiddetto bleeding, cioè la filtrazione di molecole di silicone attraverso le pareti dell’involucro protesico, che nel tempo avrebbe un effetto infiammatorio cronico con stimolazione della reazione connettivale che porta alla formazione della capsula periprotesica patologica. In seconda battuta l’assenza di soluzione di continuità fra la superficie dell’involucro protesico e il tessuto dell’ospite. Questa “continuità” è stata indiziata come elemento primario nello sviluppo di questa complicazione, tanto ad avere portato nel tempo all’abbandono delle superfici lisce degli involucri, in favore delle superfici cosiddette testurizzate. A livello microscopico le superfici testurizzate appaiono irregolari, creando quindi discontinuità nel contatto con il tessuto che le ospita. Questa innovazione tecnica ha comportato un deciso passo in avanti nella riduzione percentuale delle contratture capsulari patologiche, provocando il progressivo abbandono dell’utilizzo delle protesi a superficie liscia. Gli involucri testurizzati presentano uno spessore leggermente superiore rispetto a quelli lisci, risultando le protesi leggermente meno morbide; un prezzo che valeva la pena di pagare a fronte di una minore incidenza di contrattura capsulare patologica. Naturalmente il progresso non si è fermato e negli anni la qualità della struttura degli involucri e di conseguenza la loro “tenuta” è decisamente migliorata. Oggi il bleeding del silicone è estremamente ridotto rispetto a quanto avveniva ai tempi dei primi impianti. Questo tipo di stimolo la formazione della capsula sta decisamente venendo meno. La “ruvidità” degli involucri ha un altro vantaggio, quello di ridurre la possibilità di rotazione degli impianti all’interno delle tasche protesiche. Se questo rischio può considerarsi relativo per le protesi rotonde, non lo è affatto per quelle anatomiche che, nascendo con due diametri differenti, devono mantenere nel tempo la esatta posizione di impianto, tanto che non sono disponibili in commercio protesi anatomiche a superficie liscia. L’ulteriore sviluppo del concetto della testurizzazione, ha portato un ulteriore passo in avanti con il brevetto della macrotesturizzazione delle superfici protesiche. Questo processo produttivo, negli intenti dei ricercatori e delle aziende produttrici avrebbe esteso i vantaggi di cui abbiamo discusso, riducendo ulteriormente le complicazioni.
La situazione è cambiata in questi ultimissimi anni con la comparsa sulla scena di una rarissima patologia: “Il linfoma Anaplastico a Grandi Cellule” Il Linfoma Anaplastico a Grandi Cellule (ALCL dall’inglese Anaplastic Large Cell Lymphoma) è una rara forma di Linfoma non-Hodgkin (NHL) che si sviluppa a carico dei linfociti T del sistema immunitario. Con i dati attuali, sebbene una predominanza di casi di BIA-ALCL sia stata riportata nei pazienti con impianti di protesi mammarie a superficie testurizzata (cioè ruvida), non ci sono sufficienti evidenze scientifiche che supportino la correlazione causale tra l’insorgenza di questa patologia e il tipo di protesi mammarie, seppure enti regolari ed istituzioni sanitarie raccomandino una sorveglianza attiva della popolazione di donne con protesi mammarie. Sebbene, come detto, non sia mai stata trovata una reale correlazione fra la macrotesturizzazione degli impianti e lo sviluppo di questa malattia, sono stati rivalutati vantaggi e svantaggi di essa. Attualmente l’orientamento è di considerare questa modalità strutturale degli involucri protesici persino troppo aggressiva e iperstimolante la reattività dei tessuti dell’ospite. Di fatto questo ha portato alla genesi di nuove superfici protesiche, microtesturizzate o addirittura nanotesturizzate, probabilmente il migliore compromesso, accanto alle superfici lisce di nuova generazione, nel bilancio vantaggi/complicazioni degli impianti mammari.
Una ultima parola andrebbe spesa riguardo le protesi rivestite di poliuretano. Si tratta di protesi in gel di silicone, la cui superficie esterna è rivestito da un involucro di poliuretano. Questo materiale si presenta ruvido al tatto e la protesi appare nel complesso meno morbida rispetto agli impianti classici. Il vantaggio del poliuretano è quello di non stimolare in alcun modo la formazione delle capsule periprotesiche, pagando il prezzo di una maggiore rigidità degli impianti, caratteristica assai poco apprezzata. Un altro svantaggio potenziale riguarda la estrema capacità del poliuretano di aderire al tessuto dell’ospite, cosa che, se di fatto impedisce la rotazione della protesi, d’altra parte può rendere difficoltoso il suo espianto. A parte i professionisti che hanno sposato in toto i vantaggi da esse offerti, utilizzandole di default, questa tipologia di impianti trova il maggiore utilizzo nei reinterventi in seguito a contrattura capsulare di grado elevato (III/IV grado della classificazione di Baker), nei quali la revisione delle tasche protesiche e l’utilizzo di impianti a superficie non in silicone sia considerata l’unica opzione disponibile.
La sostituzione delle protesi mammarie non è in genere una questione di se … ma piuttosto una questione di quando. Le principali aziende produttrici garantiscono a vita i loro prodotti, da rottura spontanea da difetti di fabbricazione. A fronte di questo si indica in dieci/dodici anni la durata media di vita delle protesi, oltre il quale si consiglia la loro sostituzione. Questo deve essere inteso come un semplice suggerimento, dal momento che non esiste una data di scadenza per le protesi, diversamente da quanto accade per un farmaco o un prodotto commestibile, trascorsa la quale questi prodotti devono essere smaltiti e non possono essere consumati o commercializzati, ancorché appaiano integri nelle loro confezioni. Deve essere però dalle pazienti considerata almeno la possibilità di doversi sottoporre dopo un congruo arco di tempo alla sostituzione degli impianti.
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